La crisi del Welfare State e il reddito di base

Il Fatto: negli Stati Uniti, dove si dice superata la crisi economica per effetto delle politiche economiche anticicliche, 47 milioni di cittadini vivono in povertà. Nella ricca Svizzera si è appena celebrato un referendum per chiedere ai cittadini se vogliono un reddito di cittadinanza incondizionato di 2.500,00 franchi al mese. In Italia la classe media dal 1970 ad oggi ha perso quote consistenti di reddito ( dal 61% al 43%) mentre la popolazione più agiata, nello stesso periodo, ha ampliato la propria quota di ricchezza ( dal 29% al 48%) rimanendo pressochè invariata la condizione sociale dei ceti più bassi ( dal 10% al 9%). (Elaborazione dati della Banca Mondiale).

Dunque, il dibattito sull’introduzione di misure di sostegno al reddito è quanto mai attuale e, in effetti, le proposte non mancano: dai disegni di legge di SEL, M5S e PD, all’introduzione nella legge di stabilità 2016 della SIA ( Sostegno per l’inclusione attiva), al Reddito di inclusione sociale (REIS) sollecitato dall’Alleanza contro la povertà. (www.redditoinclusione.it).

Tutti rivendicano e sottolineano il carattere innovativo delle rispettive proposte dimenticando che l’idea di sostenere il reddito si radica nel solco di una antica discussione circa il ruolo dello Stato nel campo della lotta alla povertà.

Non si tratta di una proposta astratta e ideologicamente connotata ma di una idea su cui già nei secoli passati illustri studiosi si sono interrogati, tutti preoccupati di dare risposte concrete alle crescenti disuguaglianze sociali.

Una breve e rapida rassegna aiuterà a mettere a fuoco il problema.

Medioevo e Rinascimento

Tommaso d’Aquino (XIII secolo), sulla base della destinazione universale dei beni, affermava il dovere di dare il superfluo in elemosina a chi è in stato di indigenza.

Tommaso Moro ( XVI secolo) sosteneva la necessità di provvedere ai poveri sotto forma di un reddito di sussistenza.

Calvino si fece promotore di politiche distributive capaci di migliorare la vita dei lavoratori con basso salario.

In ambito cattolico Ignazio di Loyola, fondatore dei gesuiti, nel 1538 predicava la distribuzione gratuita di cibo ai bisognosi.

Per tutti l’aiuto ai poveri in forma di sussidi rappresentava una valvola di sicurezza per stemperare tensioni sociali che spesso sfociavano in ribellioni anche violente e, nel contempo, era il miglior modo per esercitare efficacemente la carità.

Le riflessioni di Moro ispirarono la riforma del sistema di protezione sociale inglese attuata da Elisabetta I rendendo operativa la distribuzione a livello nazionale di un sussidio pubblico sia per i disoccupati che per gli occupati a basso salario.

L’età dei Lumi

Tra la metà e la fine del 1700 iniziò a prendere corpo una visione redistributiva della ricchezza che ha trovato in Montesquieu e Thomas Paine i principali sostenitori. Il primo proponeva la redistribuzione del reddito sotto forma di assicurazione sociale, finalizzata ad alleviare la miseria in cui versavano i poveri ( da Lo spirito delle leggi). Il secondo proponeva l’istituzione di un fondo nazionale con cui pagare a ogni persona, al compimento del ventunesimo anno, la somma di quindici sterline come parziale compenso per la perdita subita con l’introduzione della proprietà fondiaria. Quest’ultima proposta trovò applicazione in Inghilterra dal 1795 fino al 1834 quando, sulla spinta di pensatori come Malthus, Bentham e Ricardo, fu sostituita da una nuova legislazione con cui l’assistenza ai poveri poteva essere erogata solo a chi avesse accettato di lavorare nelle famigerate case di lavoro.

Il XX secolo

La situazione devastante che si presentava con la fine della prima guerra mondiale spinse Bertrand Russel a difendere il principio etico per il quale “tutti dovrebbero aver garantita una quantità di reddito sufficiente per soddisfare i bisogni basilari…”.

A partire dalla fine degli anni venti alcuni economisti di Cambridge e Oxford discussero proposte di dividendo sociale. Il tema fu dibattuto lungamente anche da economisti vicini a Keynes e, soprattutto, dal premio Nobel James Meade (1907 -1995) per i quali il dividendo sociale non rappresentava soltanto una redistribuzione del reddito più ugualitaria tra cittadini, ma lo consideravano uno strumento fondamentale dell’economia pianificata per il mantenimento della piena occupazione.

Nel 1968 James Tobin, Paul Samuelson e John Kennet Galbraith, insieme con molti altri economisti, firmarono una petizione al Congresso degli Stati Uniti che chiedeva l’adozione di un sistema di garanzie e integrazioni al reddito.

Il dibattito attuale.

Oggi l’idea del reddito di base prende vigore dalla crisi del Welfare State come situazione inevitabile da una parte dei processi di globalizzazione economica e dall’altra della riduzione dei tassi di occupazione e del declino di una cultura della coesione sociale.

Le proposte di introduzione di un reddito di base si pongono all’incrocio di queste due crisi strutturali caratterizzate dalla produzione flessibile.

Peraltro potrebbe non essere lontano il tempo in cui la produzione sarà totalmente automatizzata con la conseguenza che avremo la produzione ma non avremo il lavoro ( ovvero molta più produzione con molto meno lavoro).

Imparare dalla storia.

Quale insegnamento si può trarre da questo breve e sicuramente non esaustivo excursus storico?

Rispetto al dibattito attuale mi sembra importante recuperare le motivazioni a sostegno del reddito di base che fanno riferimento a tre diverse logiche:

La prima vede nel reddito di base uno strumento di sostegno della domanda aggregata capace di migliorare il sistema economico con l’obiettivo della piena occupazione.

Una seconda logica risponde all’esigenza di riduzione della disuguaglianza da una parte in chiave egualitarista e dall’altra per il superamento delle disparità delle condizioni di partenza (che è patrimonio di molte correnti liberali).

Nella terza, infine, prevale la logica del diritto naturale di tutti gli uomini al godimento dei beni comuni.

Dunque, la proposta del reddito di base appartiene ai liberali come ai socialisti, ai laici come agli uomini di fede.

Riflettere seriamente su politiche mirate a ridurre la disuguaglianza sociale mi sembra un buon punto di partenza per mettere l’uomo al centro della riflessione sociale, politica ed economica dove è richiesto che una parte del reddito nazionale venga assegnato prima di ogni altra distribuzione (salari, profitti,rendite etc…) aumentando gli investimenti in capitale umano e la coesione sociale. Criteri, questi, che dovrebbero ispirare e motivare anche le politiche delle amministrazioni pubbliche locali spesso più interessate al consenso elettorale con interventi spot piuttosto che impegnare i propri bilanci con interventi strutturali.

Post-it: da non dimenticare la recente interessante proposta del segretario generale del CENSIS Giorgio De Rita il quale suggerisce di abbassare la produttività (contro le tesi programmatiche di Confindustria ribadite dal suo nuovo Presidente) per creare occupazione con l’obiettivo di assorbire anche quei lavoratori che hanno una produttività più bassa ma che, ampliando la platea degli occupati, farebbero crescere la domanda interna.

Primo Fonti

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