Il dio in villa: vita, economia e devozione nella Villa di Bordonchio

Allestimento della sala del mosaico negli spazi del vecchio Macello di Igea Marina

All’interno del vecchio Macello di Bellaria Igea Marina è da poche settimane finalmente visibile la parte centrale del mosaico venuto alla luce nell’estate del 2010 nei pressi della Chiesa di Bordonchio.

Il pavimento è stato realizzato all’inizio del IV secolo d.C. da artigiani molto esperti e ornava la stanza più importante di una villa rustica.

Lo scavo eseguito dagli archeologi ha però chiarito come l’edificio rurale esistesse da molti secoli prima del momento in cui i proprietari commissionarono la pregevole, quanto costosa, opera d’arte.

D’altra parte l’indizio che l’area di Bordonchio fosse abitata in forme stabili fin dal I secolo a.C. e che gli abitanti disponessero di ingenti patrimoni ci proveniva anche dalla stele di Egnatia Chila,

La stele di Egnatia Chila

un’imponente lapide funeraria trovata casualmente alla fine del XIX secolo, oggi conservata nel Museo di Rimini (all’interno del vecchio Macello è però possibile ammirarne la copia fedele a grandezza naturale).

La stele doveva ergersi lungo la via Popillia, la strada inaugurata nel 132 a.C. dal console Publio Popillio Lenate per collegare tutti i centri costieri dell’alto-Adriatico.

L’intervento del console non si limitò all’apertura della Popillia, ma interessò anche il territorio litoraneo, che venne organizzato in appezzamenti agricoli che furono in seguito assegnati ai coloni romani, affinché questi li coltivassero.

I lotti agricoli erano di forma quadrata, con lato di circa 710 m, ed erano denominati centurie.

Le tracce di questa antica suddivisione del territorio

La rete viaria romana tra Rimini e Ravenna rappresentata sulla Tabula Peutingeriana

ancora persistono, in modo discontinuo, e sono riconoscibili in alcune strade di campagna o nei tracciati dei fossi.

La sistemazione di tutto il territorio facente capo alla colonia di Ariminum (Rimini) si componeva, dunque, di

centurie di circa 50 ettari, al cui interno era presente di norma una sola villa rustica: si trattava quindi di un’organizzazione in piccole proprietà terriere, ben differente da quella che si riscontra, ad esempio, in Italia Meridionale, dove era invece diffusa la proprietà latifondista con manodopera in prevalenza costituita da schiavi.

La villa di Bordonchio, in effetti, nella sua prima fase di costruzione ci appare come un edificio rettangolare di limitata estensione, avente una modesta stanza di abitazione, un cortile interno e pochi magazzini.

Ma su quale tipo di coltivazione si basava l’economia del territorio romagnolo, e quindi anche bellariese?

Per rispondere a questo quesito ci vengono in aiuto diversi suggerimenti, alcuni di natura concreta, cioè archeologica, altri di natura letteraria.

Partiamo da questi ultimi. Nelle opere degli scrittori antichi possiamo trovare più di un riferimento alle principali attività da cui dipendeva l’economia della zona, ovvero la coltivazione della vite e la produzione vinicola.

Varrone, nella sua opera dedicata all’agricoltura composta nel 37 a.C., esalta la grande fertilità dei vigneti posti tra Rimini e Faenza, che potevano produrre circa 3000 litri per ogni ettaro di terreno; mentre Plinio il Vecchio, lo studioso morto per osservare da vicino l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei nel 79 d.C., nella sua enciclopedia di storia naturale ricorda l’uva ravennate, che era in grado di crescere anche tra le nebbie, e i vini dell’entroterra cesenate.

Il secondo indizio, quello di natura archeologica, chiama in causa la vicina Santarcangelo di Romagna,

Anfora vinaria “a fondo piatto” prodotta da officine romagnole
(I-III secolo d.C.)

località che anticamente si affacciava alla via Aemilia e che sicuramente era collegata al settore costiero per mezzo di un percorso che fiancheggiava il corso del torrente Uso.

La Santarcangelo romana non era una vera e propria città, ma una sorta di centro industriale specializzato nella realizzazione di vasellame e di materiale fittile: si producevano infatti tegole, lucerne, coppe in ceramica per bere e, infine, una particolare tipologia di anfora vinaria, detta “a fondo piatto” perché priva del puntale che contraddistingueva gli altri tipi di anfora.

L’esistenza di questo grande centro produttore a Santarcangelo trova una giustificazione solo ipotizzando una grande richiesta da parte dei viticoltori, cui il contenitore serviva per poter mettere in commercio la bevanda. Un secondo centro di produzione di anfore a fondo piatto si trovava a Forlimpopoli e doveva servire il territorio tra Cesena e Faenza, confermando quindi il dato fornitoci dagli scrittori, secondo i quali gran parte delle località romagnole erano dedite alla coltivazione dell’uva.

Dalla distribuzione dei ritrovamenti di anfore a fondo piatto, che interessa l’arco adriatico, dal Piceno all’Istria, e l’Italia centrale tirrenica (Roma e Ostia), traspare l’ampiezza della rete commerciale e l’apprezzamento rivolto dagli antichi romani al vino romagnolo.

Questi contenitori ci forniscono anche un altro importante dato, quello relativo alla cronologia della filiera produttivo-commerciale del vino, poiché queste anfore furono realizzate tra il I e il III secolo d.C., dopo di che la loro produzione cessò.

Tornando all’esposizione del vecchio Macello e osservando le varie fasi di sviluppo della villa di Bordonchio, non possiamo non notare come, nel periodo interessato dalla diffusione commerciale delle anfore “a fondo piatto”,

Veduta della cella vinaria della villa romana di Bordonchio (Foto Archivio SABAP)

gli spazi destinati alle attività lavorative siano preponderanti su quelli residenziali; inoltre l’esistenza di una cella vinaria non lascia dubbi su quale fosse il tipo di lavorazione che si svolgeva al suo interno.

Ma come veniva ricavata la bevanda dai grappoli d’uva?

Come minuziosamente descritto dagli autori latini, la spremitura poteva avvenire utilizzando vari tipi di torchi, alcuni dei quali forniti di grandi leve.

Nella villa di Bordonchio tuttavia non sono emerse tracce ricollegabili a queste presse, ragion per cui dobbiamo ipotizzare che questa fase della produzione avvenisse in modo differente.

Questa volta ci vengono in aiuto le rappresentazioni su mosaico, in cui gruppi di schiavi pigiano con i piedi l’uva all’interno di ampie vasche in muratura, chiamate calcatoria.

Mosaico di età imperiale raffigurante uomini che pigiano l’uva dentro una vasca, accompagnati dal suono di un flauto doppio.

Gli scrittori latini ci informano inoltre che la spremitura con i piedi, sebbene tecnologicamente più arretrata e meno produttiva in termini di quantità rispetto a quella con i torchi, produceva vino qualitativamente migliore.

Nelle scene di pigiatura talvolta gli schiavi sono sostituiti da amorini o da satiri, cioè le divinità dal corpo per metà umano e per metà caprino che facevano parte del corteo dionisiaco.

La pigiatura era infatti un’attività quasi religiosa, poiché rappresentava l’inizio del processo con cui il frutto prodotto dalla terra si trasformava nella bevanda in grado di procurare lo stato di ebbrezza in chi la beveva, e per questo motivo tutte le operazioni connesse alla produzione del vino erano poste sotto il controllo di Dioniso. La pigiatura poteva essere anche accompagnata dal suono della tibia, il flauto a doppia canna inventato dalla stessa dea Atena e successivamente ritrovato dal satiro Marsia, il quale esercitandosi divenne abilissimo nel suonarlo.

Piccole statue di Dioniso collocate all’interno di nicchie sorvegliavano gli spazi di lavoro, attestando la devozione che i proprietari delle ville avevano per il dio protettore del vino.

La vasca in muratura della villa di
Bordonchio (Foto Archivio SABAP)

All’interno del cortile della villa di Bordonchio in effetti si trovava una grande vasca in muratura, dove possiamo quindi collocare l’azione di spremitura dei grappoli. Successivamente il liquido veniva trasferito nella cella vinaria, uno spazio scoperto o in parte protetto da una tettoia, in cui vi erano grandi orci interrati (i dolii), emergenti dal suolo solo per l’imboccatura.

Nella villa di Bordonchio è stato recuperato solo un fondo di orcio interrato, ma si sono riconosciute le fosse per l’alloggio di oltre venti contenitori e per capire come si dovevano presentare anticamente queste celle vinarie ci vengono in aiuto i resti delle ville rinvenute nel litorale campano, dove l’eruzione del Vesuvio ha premesso una conservazione straordinaria delle strutture.

La cella vinaria di Villa Regina
a Boscoreale (Napoli)

La conservazione in questi contenitori permetteva al vino di fermentare ad una temperatura mantenuta costante dal terreno circostante fino al momento della spillatura, che avveniva nella primavera successiva alla spremitura.

La fine del processo di vinificazione e il trasferimento del liquido nelle anfore per poter essere venduto venivano celebrati con la festa delle Vinalia priora, il 23 aprile, data dalla quale partiva l’immissione al consumo del vino. 

Un oggetto proveniente dallo scavo di Bordonchio ci racconta della profonda radicalizzazione del culto dionisiaco nella villa: si tratta del castone in corniola che ornava un anello d’oro, databile al II secolo d.C.

Castone di anello con inciso Sileno nell’atto di sorreggere un grappolo d’uva
(II sec. d.C.)

Sulla corniola è inciso un personaggio seduto, visto di profilo, che sorregge con la mano sinistra un grappolo d’uva.

Grazie ad alcuni dettagli, come il copricapo, la barba appuntita, la zampa caprina e, forse, la coda, possiamo riconoscere in questa immagine, Sileno, una divinità minore protettrice degli alberi, figlio del dio silvestre Pan e dotato di grande saggezza, che fece da protettore al giovane Dioniso.

La presenza del dio protettore degli alberi, raffigurato nell’atto di reggere il grappolo d’uva non è forse una semplice scena di genere, ma può essere interpretata come una rappresentazione simbolica della coltivazione a “vite maritata”, una particolare coltura, ereditata dagli Etruschi, che utilizzava gli alberi vivi come tutori per le viti.

La tecnica a “vite maritata” non era il solo tipo di coltura possibile, ma era tipica di quelle ville che organizzavano la propria economia sulla consociazione produttiva: in un medesimo campo si potevano così ottenere legna da ardere, frutti e fogliame per il foraggio dagli alberi tutori e uve per il vino dalle viti.

Raffigurazione di una vite maritata

Sarcofago spagnolo con amorini che vendemmiano arrampicandosi su una scala e che pigiano l’uva dentro una vasca
(fine del III sec. d.C.)

Queste erano piantate vicino ai tutori, una o due per tronco, e venivano fatte crescere alte, fino alla chioma dell’albero. Quando le piante di vite diventavano adulte, i tralci venivano tirati e intrecciati con quelli del vicino tutore, formando alti festoni.

Per questo motivo nelle scene di vendemmia la raccolta è eseguita da lavoratori che si servono di lunghe scale in legno per raggiungere i grappoli più alti, oppure è affidata ad amorini alati.

Tornando al castone dell’anello ritrovato a Bordonchio, risulta ora chiaro il messaggio che è sottinteso alla scena mitologica: il dio degli alberi Sileno che sorregge un grappolo d’uva non è altro che la rappresentazione simbolica della tecnica colturale utilizzata nel fondo agricolo annesso alla villa.

Grazie alla produzione e al commercio del vino, i proprietari terrieri di Bordonchio riuscirono ad accumulare un rilevante patrimonio, tale da consentire la ristrutturazione della loro abitazione e commissionare la realizzazione del mosaico nella sala destinata ai banchetti. E anche qui, all’interno del riquadro posto al centro del pavimento, troviamo una immagine divina, quasi sicuramente Dioniso.

Dettaglio del busto di Dioniso posto al centro del mosaico che ornava la sala da banchetti della villa di Bordonchio (inizio del IV sec. d.C.). Foto Archivio SABAP

Il dio è raffigurato con i lungi capelli pettinati in trecce che cadono sulle spalle e con il capo ornato da una corona di edera.

Già trattando del castone abbiamo visto come la devozione verso la divinità che proteggeva l’elemento da cui derivava la ricchezza della villa si manifestasse anche in oggetti di ornamento personale.

La scelta di Dioniso, in questo caso, ha però anche una sua coerenza dal punto di vista del contesto, dato che il mosaico decorava il pavimento della coenatio, cioè il luogo in cui il proprietario della villa metteva in scena il complesso cerimoniale del banchetto.

Il banchetto era un pasto collettivo, dotato di un forte valore rituale, che culminava nel simposio, la pratica conviviale in cui si beveva vino sotto la regia di un direttore, il simposiarca, che decideva quantità e frequenza delle assunzioni.

Per questo motivo il dio raffigurato nel mosaico era rivolto verso l’abside, dove si trovavano i letti su cui si distendevano i convitati, mentre risultava rovesciato per coloro che entravano dalla porta della sala.

Al Dioniso di Bordonchio possiamo però attribuire una terza valenza, che emerge dall’analisi complessiva del mosaico. Il busto infatti è posto al centro di un decoro definito, in termini tecnici, “a croce di scudi”, per via dei motivi esagonali che si ispirano alla forma dello scudo, richiamando l’immagine raffigurata anche sulle monete romane, e si congiungono a due a due formando una croce.

Decoro a croce di scudi
(Foto Archivio SABAP)

Vista da questo punto di vista, la realizzazione del mosaico appare quasi come una invocazione al dio, affinché con la sua benevolenza si erga a difesa delle coltivazioni e della villa.

Moneta romana con scudi incrociati

Nonostante l’attività produttiva sia poi cessata e il trascorrere del tempo abbia cercato di annullare le testimonianze del lavoro e della devozione di questi antichi abitanti, possiamo oggi affermare che il dio non abbia del tutto disatteso le proprie responsabilità di protettore.

Il sostegno divino, o forse il semplice caso, ha infatti evitato che gli agricoltori, inconsapevoli della distruzione che avrebbero potuto arrecare spingendo l’aratro solo pochi centimetri più in profondità, danneggiassero il pavimento, permettendone così il ritrovamento e l’attuale recupero.

Possiamo ipotizzare che le speranze dei proprietari della villa non fossero tanto diverse, da quelle espresse nelle prime righe dell’opera poetica di Tibullo, uno scrittore contemporaneo di Virgilio, che nelle sue liriche amorose esalta la vita agreste e prende le distanze dalla guerra:

“Altri accumulino ricchezze d’oro zecchino e

 tengano a coltura molti iugeri di terra,

 sì che un’angoscia continua li assilli

 per la presenza del nemico,

 e gli squilli delle trombe tolgano loro il sonno.

La moderazione conceda invece a me una vita tranquilla,

perché sul mio focolare splenda sempre una fiamma.

Come un contadino vorrei io stesso

 piantare a tempo e luogo i tralci della vite

 e con mano sapiente gli alberi da frutta

 senza che la speranza mi tradisca,

 ma via via mi conceda covoni di grano

e vendemmie abbondanti che colmino i tini”

(Tibullo, Elegie, I, 1, vv. 1-13).

* Renata Curina è ispettrice della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e per le province di Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Ai tempi dello scavo era ispettrice per il territorio di Rimini Comune e Provincia.

Cristian Tassinari, bellariese, è archeologo libero professionista, associato di TECNE Srl.

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